Procreazione Medicalmente Assistita: un obiettivo, tante tecniche 

Quando si parla di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), spesso si tende a semplificare oppure a fare confusione, complice magari anche un po’ di agitazione che spesso ci accompagna quando decidiamo che è ora di diventare genitori. Per dirla con le parole del Ministero della Salute, per PMA si intende “l’insieme delle tecniche utilizzate per aiutare il concepimento in tutte le coppie, nei casi in cui il concepimento spontaneo è impossibile o estremamente remoto e nei casi in cui altri interventi farmacologici e/o chirurgici siano inadeguati”. 

In poche parole, parliamo di infertilità. Maschile e femminile. Secondo le Linee guida ministeriali si può ricorrere alla PMA “quando una donna non riesce a rimanere incinta dopo 12-24 mesi di rapporti non protetti”. 

A oltre quarant’anni dalla nascita di Louise Joy Brown, la prima bimba nella storia concepita in vitro – che ebbe anche il “merito” di far vincere al fisiologo britannico Robert Edwards il Nobel per la Medicina – la Scienza ha fatto passi da gigante. 

Se Lesley e John, i genitori di Louise, allora, avevano una speranza di diventare genitori pari a una su un milione, oggi le possibilità sono 300.000 su un milione. 

Ma andiamo nel dettaglio: la PMA, come detto, si avvale di diversi tipi di tecniche che comportano la “lavorazione* di ovociti, spermatozoi o embrioni nell’ambito di un trattamento finalizzato a realizzare una gravidanza”. Queste metodiche prevedono opzioni terapeutiche diverse tra loro che, essenzialmente, sono suddivise in tecniche di I, II e III livello. I livelli sono assegnati sulla base della complessità che le caratterizza.  

Prima di cominciare è bene sapere che nel 2014, la Corte Costituzionale ha fatto decadere il divieto al ricorso a tecniche di fecondazione assistita eterologa. Ha, in pratica riconosciuto “il diritto incoercibile delle coppie ad avere figli”. Quindi tutte le tecniche analizzate di seguito, possono essere sia omologhe, sia eterologhe.

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